Le parole sono importanti, questo si sa. Il loro significato invece, quello è del tutto soggettivo. Vi ho mai raccontato di quella volta che mi misi a scrivere un vocabolario?
23 Marzo 2008
Cara te, ho ricominciato a scrivere. Avevo smesso perché non trovavo più le parole. Un po' come Ligabue, ma meno grave. E allora ho pensato che la soluzione migliore era mettersi a scrivere un vocabolario. Sì, insomma: sto scrivendo un vocabolario. No, non un libro: proprio un vocabolario. Il mio vocabolario.
Che secondo me ce ne vorrebbe uno per ognuno, di vocabolario: un vocabolario personalizzato, visto i fraintendimenti che son capaci di generare le parole, buttarle lì come si fa di solito. Che il vocabolario non è mica una cosa universale, anzi, è strettamente soggettiva, il vocabolario, quasi intima, se mi permetti l'uso di questa parola così complicata da inserire al posto giusto.
Un posto caldo. Se si trova, poi ci si sente come un biscotto appena uscito dal forno.
E allora ognuno dovrebbe scriversi il suo, di vocabolario, e poi distribuirlo alle persone dalle quali vorrebbe esser capito. Strano che ancora nessuno ci abbia pensato. Io la gente non lo so, cosa pensa oggi la gente invece che alle cose importanti come questa.
Io comunque ho iniziato, scrivere il mio. Prendo appunti su quel quadernetto con la copertina nera che mi avevi regalato tu, quello con la dedica un po' strana, a metà tra una speranza delusa e una preghiera rassegnata:
Scrivici solo cose sensate, se ne sei capace.
Dirla tutta, non lo so se ho davvero seguito il consiglio, che era una pretesa mica da poco: scriver cose sensate, eh.
Insomma, dire il vero, non lo so quanto sia sensato, scriversi un vocabolario. È che è così difficile disegnare dei contorni definiti su quella parola lì: mica son tutti bravi come te, a distinguere il bianco dal nero.
Aggettivo privo di senso, supponente e antipatico. Spesso chiamato in causa nelle situazioni di precario equilibrio, dove recita egregiamente la parte di via di fuga esente da troppe responsabilità.
Comunque sono già a pagina settantuno, per un totale di quattrocentonovantatré parole: lo porto sempre con me e lo aggiorno subito appena incontro una cosa che parer mio ne vale la pena.
Ci scrivo sopra con una matita: tanto ho imparato che nella vita, in generale, sempre meglio poter cancellare. Si sa mai. Una matita di quelle minuscole, quelle che rubavamo insieme all'IKEA.
Comunità commerciale fondata da uno svedese intorno alla fine del XX secolo. Attualmente è uno stato mentale altamente diffuso con una risposta per ogni domanda e una soddisfazione su misura per ogni bisogno. Può creare dipendenza, visto che alimenta l'illusione di potersi rimontare la vita con poche, semplici istruzioni.
Li tengo entrambi, quaderno e matita, nella tasca laterale dei pantaloni vecchi, quella larga, ti ricordi? Quella dove una volta nascondevo tutta la scorta di entusiasmo che avevo accumulato? Ecco. Ora da trascinarmi in giro mi son rimaste solo le occhiaie, e quelle mi tocca di portarmele in faccia: così la tasca vuota mi pareva il posto adatto per metterci dentro un vocabolario, che in questo modo uno le parole ce l'ha sempre a portata di mano e non rischia di rimaner senza. Come Ligabue.
Mi pare un gran bel trucco anche questo, non trovi?
Meccanismo illecito per coccolare l'amor proprio. Quasi mai dice le cose come stanno: a volte si porta intorno agli occhi o sulle labbra, altre dentro un cilindro o all'interno della manica. Sempre stupisce ma dura poco, quasi mai quanto si vorrebbe.
Sì, l'ho sempre con me insomma. Per esempio ieri: ero sul treno a guardar fuori dal finestrino il mondo che girava al contrario, come se qualcuno lo stesse riavvolgendo, e ogni tanto scarabocchiavo sul quadernetto le parole che mi passavan davanti.
Stavo giusto scrivendo:
Due pezzi di vita che fanno di tutto per non incontrarsi. Quando per puro caso succede, non si salutano.
Quando la ragazza seduta di fronte a me mi ha chiesto senza avvertirmi prima ma cosa scrivi?
Io mi son vergognato un po', ma così su due piedi (anche se ero seduto si poteva dire lo stesso su due piedi? Speravo di sì) ci ho risposto lo stesso:
Lei allora ha fatto una faccia strana che non ho capito bene se voleva dire «Wow, un vocabolario!» oppure «Povero matto, un vocabolario…» e senza dire niente si è rimessa a leggere. Fuori è continuato a rotolare un altro po' di mondo fin quando siamo arrivati alla sua stazione.
Il posto peggiore per un addio. Ad abusarne, rende la vita una via crucis.
Allora lei si è alzata e dicendomi:
Mi ha lasciato sulle ginocchia il suo biglietto, ormai inutile nel suo essere inequivocabilmente obliterato, con su scritto a penna:
L'unico istante in cui le parole non son mai abbastanza.
Io ci ho pensato un attimo e mi son detto che sì, che poteva andare, che magari lo aggiungevo anche al mio vocabolario quel vocabolario lì. E così l'ho messo sotto la M di "Momenti critici".
Che anche il modo con cui dividere le parole, dentro al tuo vocabolario, è del tutto individuale: ognuno dovrebbe inventarsi il suo in base alle proprie esigenze. Io per esempio mi tornava meglio fare un vocabolario al contrario, e allora ho messo in ordine alfabetico i significati invece della parole: che secondo me è molto più semplice andare a cercare come dire le cose una volta che hai ben definito cosa dire piuttosto che viceversa, come fanno in tanti.
E così nel mio quaderno il vocabolario è diventato una frazione di tempo, l'intimità un posto (infatti sta sotto la L di "Luoghi da visitare") e se non mi ricordo male dovrei anche aver iniziato la P con "Personaggi storici". Sì, ecco, per esempio:
Il nonno di Cattivik e Diabolik. È un anziano signore di Praga e ivi vive, sotto il ponte Carlo, con il gatto russo Kolchoz e la governante tirolese frau Kindergarten: la sua attività prediletta consiste nel girare la pagaia di un kayak canadese in un pentolone di rame nel cui interno ribolle una cosa di sua invenzione, che infatti a tutt'oggi porta il suo nome e che serve a rimettere a posto qualunque oggetto si stacchi dalla realtà.
Oppure, che ne so:
Statista italiano. Ministro delle telecomunicazioni ad interim dal 1953.
Insomma, cose così.
Solo che poi ogni tanto me le devo rileggere, le parole che ho scritto sul vocabolario: per impararle bene, o anche solo per verificare che non sian cambiate nel frattempo. E allora mi siedo sull'altalena che ho messo al posto del divano e comincio a ripassarle.
Un po' titubante, te lo confesso, cara te. Titubante e guardingo, sì: perché lo sanno tutti che le parole, rileggerle finisce che ti ci affezioni, che non puoi più farne a meno, e poi c'è il rischio che ti venga la tentazione di usarle a sproposito. Rileggerle, le parole — chiunque lo sa — è un po' come farci l'amore: con tutte le complicazioni del caso.
Che in fondo, cara te, sarà una coincidenza, ma, sfogliare questo quadernetto, non mi riesce di trovarci dentro la parola "amore".
Illusioni ottiche travestite da atmosfere poco chiare. Femminile perché c'è sempre una donna di mezzo. Plurale perché non vengon mai da sole. Sovente accompagnate da uno spasmo di distrazione, da un dolore da quattro soldi, dallo stupore che sia successo di nuovo, dalla speranza che non succeda mai più.
Sarà colpa dell'altalena, che leggere oscillando ti ballan gli occhi ed è calorosamente sconsigliato da qualunque dottore o sedicente tale. Sarà che forse non ho ancora avuto il coraggio di scrivercela. Che forse mi son dimenticato di farlo. O forse l'ho fatto e non mi ricordo più dove: non sta né sotto la R di "Realtà virtuali" né sotto la F di "Filosofie spicciole", chissà.
Sarà per via di quella storia di Praga:
Una città dove non sopravvive niente. Chi c'è stato è tornato un po' diverso e giura che non c'è il mare. Per ora.
Però in effetti è strano, cara te. Perché ti assicuro che il significato lo conosco bene, e ce l'ho stampato chiaro in testa:
Un fraintendimento a cui l'uomo è incline. Sortisce, tra l'altro, un'infinità di parole, che puntuali ne tradiscono l'essenza.
Come queste.