I mille significati dello stare, il rimanere fermi come unica, vera, direzione ostinata e contraria, soprattutto quando intorno a te tutto si muove. Tipo questo vento porco.
16 Giugno 2009
Cara te, «Come stai?», dici. Come sto. Sai benissimo che è una domanda a cui non so rispondere: «Come stai?». Stare bene, è ancor meno dirlo, è una di quelle cose che non mi son mai riuscite con disinvoltura, come intrattenere una conversazione sul tempo (metereologicamente parlando, dico, che sul tempo come misura ingannevole secondo la quale si percepisce il trascorrere degli eventi, strettamente correlata alla necessità di farsi la barba almeno ogni tanto, quel tempo lì invece ci starei a parlare le ore, diventando noioso anche per uno studente di filosofia — ma questo lo sai, o comunque te lo puoi immaginare, anche se non hai studiato filosofia), ballare, sorridere a comando e chissà quante altre.
Sto. Come dice («Sto!») uno che a tombola (la tombola è un gioco che uno chiama i numeri e loro — i numeri dicono — non rispondono mai, una metafora della vita, a voler ben vedere, se mi concedi questa similitudine da poco) gliene manca giusto uno per arrivare dove vuole arrivare (ambo, terno, quaterna, cinquina — dipende dalle ambizioni) e sta («Sto!») tutta la sera ad aspettare che esca, per poi ritrovarsi, alla fine, mentre cammina sulla via di casa, ad aver poco altro da fare se non infilare la mano in tasca e affogare le dita in mezzo ai fagioli secchi che gli sono avanzati. Che (se hai provato anche solo una volta questa è una precisazione inutile) è comunque meraviglioso, infilare le dita in un mare di fagioli secchi, ma pur sempre un surrogato, se il tuo obiettivo era fare ambo, terna, quaterna, cinquina (dipende dalle ambizioni).
I fagioli secchi son delle robe che a tombola servono per ricordarsi quei — pochi — numeri che incredibilmente han risposto, quando son stati chiamati: è una cosa rara, ma dà comunque una certa soddisfazione, appoggiar il fagiolo sul numeretto e pensare "bòn, anche questa è andata" e poi rimettersi ad aspettar fiduciosi che qualcun altro risponda — come nella vita insomma, ma meno triste.
Ma non ero qui per parlarti di fagioli. Per quanto parlar di fagioli rimanga un argomento rispettabilissimo, non mi fraintendere, cara te.
È che c'era (cioè, c'è ancora — chissà perché quando si parla di una canzone se ne parla sempre al passato, come se anche solo ascoltarla equivalesse in qualche modo a ucciderla, o comunque a perderla, qualunque sia il significato che vogliamo dare alla parola "perdere") una canzone (non ti sto a dire il nome del gruppo perché è più lungo del resto del blog) che diceva:
I am alive, I am alive, and that is the best that I can do.
C'aveva un titolo bellissimo, secondo me: Dress Me Like a Clown.
Non ho mai capito cosa mi piacesse, di quella frase: se il vestito da pagliaccio, o il fatto che a mettertelo addosso fosse qualcun altro, ma non vorrei divagare. Diceva: «I am alive, I am alive, and that is the best that I can do.»
E allora sto. Mi par mica poco, a me. A te non so. Mi sa di no, visto che hai avuto sempre ambizioni ben maggiori di una semplice cinquina, e i fagioli secchi dicevi che al massimo van bolliti, per cavarci fuori qualcosa di buono (una mezza cena, qualche proteina, o anche solo una scottatura — non si butta via niente). Io invece sto.
Sto qua, attento a non lasciar mai tracce di caffè in fondo alla tazzina per non rischiare di riuscirci a leggerci qualcosa, e a dare un voto ai giorni in base all'angolo di inclinazione che la mia testa inavvertitamente assume ogni volta che non guardo negli occhi qualcuno quando parlo di me. A mettere in ordine i libri sugli scaffali dal più alto al più basso, sacramentando contro quelli che sporgono in fuori: maledetti libri quadrati che non sibilancian mai né in lunghezza né in larghezza. A cercare di ammortizzare come meglio posso l'urto dell'ascensore contro il piano terra quando insieme planiamo giù dall'ottavo, di piani dico, come due fragili testimonianze del fatto inconfutabile che la gravità vince. Sempre.
Così sto. A fissare l'asfalto che si scioglie, e a pensare che non sono solo non ci son più le mezze stagioni, son sparite pure quelle intere, quelle stagioni di un certo livello che sapevano sempre cosa volevano (un paio di occhiali da sole, un piumino, una ribellione o un amore non faceva differenza) e non te lo mandavano certo a dire. A recriminare su quello che ne è rimasto, ovvero una manciata di giorni secchi, che non c'è nemmeno gusto a infilarci le mani dentro, con i quali al massimo puoi segnarci i numeri sul calendario, consapevole già in partenza che lì c'è poco da aspettare fiduciosi, visto che lì, sul calendario dico, il numero che esce domani lo sai già oggi, e non c'è bisogno di nessuno che te lo chiami.
Fermo qui, costantemente impigliato nella costruzione arborea di burtoniana memoria che a suo piacimento mi improvvisa sulla testa questo vento porco che, come sempre, odio cordialmente.
Sto, insomma.
Con pochi indumenti veramente estivi, a fare l'unica cosa che so davvero far bene: contemplare la mia innata incapacità di schierarmi a prescindere e convivere così con la quella malinconia storta, quella che non sai mai se ti fa bene o ti fa male, quella delle foglie che cadono anche a giugno, non si è ben capito se per asfissia, per stanchezza, o per scherzo.
E muoversi non sembra così importante, perché fin da piccoli ci insegnano che per muoversi occorre innanzitutto un bel posto dove andare e subito a seguire un buon motivo per andarci.
E così finisce che sto. E non mi par nemmeno una brutta idea. A te non so. A me no, non mi par per niente una brutta idea. Che muoversi, con quest'afa senza preavviso, finisce che si suda. E poi prender una bronchite, o comunque ammalarsi (dove per "ammalarsi" intendo, cara te, niente più che star peggio di come si stava prima, che è un concetto molto semplice, e forse per questo a modo suo affascinante) è un attimo, con quest'afa, tutti sudati, quando poi come se nulla fosse si alza questo vento porco — che, come sempre, cordalmente odio.