Faceva una specie di freddo, ma c'era quella vecchia canzone dei Pavement a scaldare un guscio ovattato in cui rinchiudersi: quella musica che va ma non arriva mai, così dimessa, come una piazza. E niente altro.
23 Ottobre 2007
Esser qui, sentire questa roba vecchia dei Pavement. Come rinchiudersi in un guscio che i rumori fuori son tutti ovattati nel loro esser diventati senza importanza. Come un amico che non c'è niente da spiegare perché ha capito tutto prima che lo capissi te. E tutti i pensieri come aquiloni che volano in direzioni opposte, attaccati a mille fili stretti da una sola mano.
Esser qui, sentire questa roba vecchia dei Pavement e rendersi conto di come è difficile ritrovarsi tra le mani qualcosa (un oggetto, uno sguardo o anche solo una canzone) che non si porta addosso il ricordo di qualcun altro, qualcosa (uno sguardo, un'idea, o anche solo una canzone) che puoi permetterti il lusso di non associare a nessuno.
E allora sentirsi un po' fortunati, esser qui a sentire questa roba vecchia dei Pavement. Come rinchiudersi in una bolla di niente e toccare con la punta delle dita il vecchio chewingum che tieni attaccato sul fondo della tasca, nel cappotto, freddo e un po' duro come un compagno di scuola che non vedevi da anni e un giorno all'improvviso lo incontri per strada, giù in città.
E ripensare ad Andrea e al trucco infallibile che avevamo trovato da ragazzi per fronteggiare tutti gli sgambetti della vita («Bimbo mio, la vita più che sgambetti fa falli da dietro, e l'arbitro non l'ammonisce mai: un po' come la Juve», mi spiegava l'altro giorno il Montaleni, anni settantasei, una vita passata in curva Fiesole all'Artemio Franchi, oggi pensionato 24 ore su 24 al Bar Marisa, Viola Club per tifosi da 0 a 99 anni).
Ripensare ad Andrea e a quella formula magica che sembrava un'idiozia, ma funzionava, eccome se funzionava. Ad Andrea e a quell'esorcismo infantile:
Vabbè, che ti frega, tanto ci sono i Pavement.
Tipo:
Esser qui, in camera. Piena notte. Disteso sul letto con il telefono accasciato accanto che ancora sgocciola tutte le parole che uno vorrebbe sentirsi dire. Come a dover proteggere un sogno che assomiglia troppo a un bicchiere pieno d'acqua fino all'orlo e tutto il conseguente bisogno di muoversi con delicatezza, una delicatezza difficile, se capisci cosa intendo caro utente che chissà se capisce, per non versarne nemmeno una goccia. Guardare il soffitto, non vedere niente, che il buio non ti fa vedere niente, neanche il soffitto, certe volte. Giuro, neanche il soffitto. Il buio, certe volte, neanche il soffitto, ti fa vedere: e questa è una crudeltà gratuita bella e buona.
Ma tant'è.
Esser qui, avere nelle cuffie questa voce sussurrata. Questa musica così lenta. Che non arriva da nessuna parte, ma continua ad andare. Sempre più lenta, o comunque costantemente inciampata, con tutto quell'arpeggio sghembo e quelle tracce di assoli così bambini, quegli assoli così abbozzati che sembrano innamorati, ma innamorati come solo son capaci di esserlo i bambini alle elementari.
Quando è tutto un gioco di dita: l'indice di una mano da mordere nervosamente in bocca, l'altro a indicare la piccola Lisa che gioca con le amichette a ricreazione.
Lenta e sgangherata, quella musica bambina lì, eppure continua ad andare. Arrivare, però, non arriva mica da nessuna parte, che, guardar bene, non ci prova neanche, arrivare da qualche parte. Un po' come una piazza.
Dimessa, penso. Ma così dimessa che ti vien quasi il dubbio che si potrebbe esser felici anche solo rimanendo immobili, o quantomeno girando in tondo.
E allora ascoltare questa voce stanca e inerme, ascoltare questa musica, dimessa. Sfacciatamente dimessa, mi viene da pensare. Così dimessa che, alzarmi, prendere la pistola, spararmi in bocca, anche volendo, mi sa che non avrei mica la forza, ascoltare una musica così dimessa. Né la voglia, sinceramente.
Scacciare tutti i groppi in gola, penso. Oppure godersi appieno quando arrivano, che son groppi strani questi o forse sarà il freddo che me l'ha intorpidita, la gola, che ora non le riesce più di distinguerli i groppi, ma mi sa che son groppi che se arrivano è bello, questi groppi in gola qua, dire il vero.
E allora esser lì, ascoltare questa musica asimmetrica e soffice. E poi guardare il telefono che si lamenta per via della batteria ormai agli sgoccioli. E aspettare che arrivino, decine di groppi in gola. Scacciarli subito, però. O forse no.
Che anche esser lì al buio, guardare il soffitto, non vedere niente che il buio a volte è crudele gratis proprio che nemmeno il soffitto Dio santo, avere i groppi che ti prendono la gola e poi lo stomaco, non ti serve mica altro, non c'hai mica bisogno di nient'altro.
Per star bene un attimo, non c'hai bisogno di nient'altro.