Mah

Mah

Una lettera a me stesso scritta in piena notte come se io fossi Beckett e me stesso non fosse un cazzo. Un monologo dell'assurdo frutto dell'insonnia che non porta da nessuna parte. O forse sì?

7 Marzo 2007

Caro me, niente. Sto qui a non dormire, tanto vale scrivere due righe. Che te le racconterò presumibilmente domani mattina, allo specchio, o meglio ancora riflesso un po' distorto sugli spicchi della moka, così sembra quasi che tu abbia più d'una faccia, caro me, che alla fine altro non è che la verità.

Insomma dicevo che queste due righe probabile che te le rispiego per filo e per segno domattina, ma scrivere le scribacchio ora, che a ben vedere è già mattina, ma visto che di dormire non se ne parla, facciamo che è ancora notte. Von tutte le spiacevoli conseguenze del caso in termini di confusione tra l'adesso, l'oggi e il domani.

E facciamo pure che non ci deve mica essere per forza un motivo, che qui di notte si sta svegli: non c'è. O meglio, mi sa che c'è, ma facciamo che non c'è e vissero tutti felici e contenti.

Sono sveglio, ma non c'è una ragione. Vado a letto tardino e basta: a volte capita. Più o meno tutte le sere, capita, ma non sottilizzare come tuo solito, caro me.

Una dura giornata

Lo sai cosa stavo pensando? Stavo pensando: «questa sarà una giornata dura». Che, ad analizzare la questione a fondo, è una frase un po' senza senso, visto che questa giornata possiamo dire che è ormai a fine, mentre la prossima non può essere ancora definita propriamente "questa". Però questo stavo pensando, e per una volta non voglio raccontarti cazzate, caro me.

Che poi non si capisce bene il perché di questo pensiero. Che una sta sveglio e c'ha di questi pensieri in testa che ti frullano e parlano e dicono, presagiscono, della giornata.

Di quale giornata, direbbe Max Weber. Tu, così privo di razioncino raziocinante mi fai raccapricciare, direbbe. Che ci devono essere degli indizi, che lo fanno presupporre, della giornata dura, come ci furono i sintomi della rivoluzione borghese del diciassettesimo secolo, che era una cosa che se ne sarebbe accorto anche un bambino, del sotterraneo ribollire del proletariato: una cosa che doveva succedere e non ci si poteva fare niente, direbbe Max Weber.

E invece no, caro me, ti giuro che ci son delle cose che uno se lo sente e allora lo dice che sarà una giornata dura, ma senza indizi.

L'importante è (non) esser convinti

Un po' come quelle volte che dice «mah», e poi si ferma, uno. Si ferma e non sa più che dirsi.

Ecco, io alla fine son qui che passo il tempo a non dormire e mi son detto sarà una giornata dura. E poi «mah», mi son detto. Che guarda, caro me: dirsi «mah», a volte è il modo migliore per iniziare una giornata di quelle dure che poi non te lo spieghi mica perché dovrebbe essere così dura, quella giornata lì.

Lo sai, no, come vanno queste cose.

Qui ci andrebbe un punto esclamativo, ma datosi che il suddetto mi fa antipatia non lo uso. Troppo invasivo, troppo sborone, troppo autoreferenziale, il punto esclamativo. Troppe entusiasmo, il punto esclamativo. Anche se mi rendo conto che senza la frase scema un po', ma tanto tu lo sai quindi stiamo tutti tranquilli e io non ci metto l'esclamativo, che nella vita: meno entusiamo, nella vita, please.

Che poi non è mica vero che lo sai: sai un cazzo te, caro me. Però facciamo che lo sai così non ci metto l'esclamativo, che c'ho bisogno di conferme e non è giornata di punti esclamativi, questa, qualunque essa sia. Che anche se non è vero questa cosa che tu le cose le sai a me mi rilassa, mi libera dal peso di spiegare proprio tutto. Quindi facciamo che lo sai, così, tra te e me, caro me.

Che un giorno farò una prova, caro me. Scriverò tre, forse quattro parole senza senso e poi uno spazio bianco, che poi te le spedisco a te e mi sembrerà di aver spedito una cosa completa, rifinita. Di quelle che non ci sarà più altro da aggiungere. Di quelle che le leggi e dici: mah.

E poi ti fermi. Più rassegnato che stanco. Più spossato che deluso. Perché non c'è proprio nulla da aggiungere oltre.

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