Previsioni del tempo andato dall'alto di una panchina: ci sono giorni brutti, e anni da buttare. Secondo Gino erano quelli pari, per la precisione. E non aveva mica tutti i torti, a ben vedere.
30 Marzo 2007
Gino era uno che la gente dicevan che era matto. Che la gente si sa: a dire che uno è matto ci metton un attimo, la gente. Gino la gente dicevan che era matto perché usciva di casa solo nei giorni dispari: pensa gli anni bisestili, per Gino: gli anni bisestili erano anni faticosi per Gino, che doveva uscire di casa un giorno in più rispetto agli altri.
Mi diceva Gino seduti sulla panchina della piazza, una sera qualunque di un giorno dispari qualunque estratto a caso da un'estate qualunque di tanti anni fa. Un po' come i mondiali, pensavo io, che quell'estate lì era una di quelle che invece succedevano i mondiali di calcio, e a Gino gli piaceva un sacco quando le partite finivano zero a zero. Il perché era semplice, e la teoria confermata da quanto diceva Carmine:
Carmine era il macellaio, non a caso uno che gli piaceva un sacco aggiungere gli zeri in fondo al prezzo della lonza al chilo.
Gino era buffo: teneva sempre un occhio chiuso che sembrava ti facesso l'occhiolino. Mi spiegava paziente:
Io pensavo che era una scusa, questa delle focali, pensavo che in realtà lui preferiva vederci da un occhio solo perché due era un numero pari: pensavo che se ne avesse avuti tre, Gino, di occhi, non avrebbe avuto problemi a guardarsi in giro con tutte quelle focali là. Però lui provava a convincermi con l'empirismo:
Io provavo e c'aveva ragione, Gino. Vedi te che storia questa delle focali, pensavo io allora, con le zampette che penzolavano nel vuoto, che a quei tempi nemmeno arrivavo a toccare il terreno se stavo seduto su una panchina.
Gino c'aveva una mano sola, che l'altra l'aveva persa sul lavoro, nel '75: di quelle cose che succedono in un secondo, che prima c'avevi la mano e dopo non ce l'hai più, ma ce l'ha in bocca la pressa che non ha nessuna intenzione di restituirtela. Gino diceva che non gli dispiaceva mica, questa cosa che gli era rimasta una mano sola: diceva che è vero che una mano aiuta l'altra, ma aggiungeva che se l'altra non c'è più allora la mano in questione c'ha più tempo per farsi gli affari suoi. Che non è mai un male, questa storia di aver più tempo per farci gli affari nostri. E poi, diceva Gino sottovoce:
Gino, per esempio, giocarci a pari o dispari non c'era gusto e infatti lui aveva inventato un gioco che si chiamava dispari e dispari: le mani potevano far comparire solo numeri dispari, se poi il risultato della somma era pari vincevi te, se era dispari vinceva, ovviamente, lui. Il fatto che la somma di due numeri dispari dà sempre un numero pari era un brutto scherzo della matematica travestita da destino, oltre che la testimonianza tangibile che a Gino di vincere non gliene poteva fregare di meno: partecipare al limite, se proprio uno insisteva, ma anche quello non era così importante. O comunque non così importante come sosteneva quel francese famoso.
La gente dicevan che era matto, Gino: a me invece mi sembrava semplicemente uno normale che però usciva di casa solo nei giorni dispari. Son scelte, pensavo, come quelli che vanno al mare sempre a Baratti o quelli che bevono solo il latte parzialmente scremato: ce ne son tanti. Ecco. Gino usciva di casa solo nei giorni dispari, che quelli pari, diceva, eran giorni che non se lo meritavano, che lui uscisse di casa. Che se penso che c'è della gente che invece te la ritrovi tra i piedi tutti i giorni: eh, allora mi vien da dire, ben vengano quelli come Gino, che almeno te li ritrovi tra i piedi al massimo un giorno sì e uno no.
Io ci stavo bene, a parlare con Gino, lì seduti sulla panchina della piazza, a prendere il fresco della sera d'estate, bastava fosse dispari il giorno. Ad ascoltarlo raccontarmi tutte quelle storie già sentite viste sotto un altro punto di vista, tutte quelle storie viste con un occhio solo e disegnate nel vuoto con un moncherino, che l'altra mano c'aveva di meglio da fare, che star lì a raccontar le storie.
O forse sarebbe meglio dire "ricontare".
Per esempio Biancaneve e i sette Nani, che gli piaceva un sacco a Gino, perché se i nani son sette e non otto o sei un motivo ci sarà, diceva. O I tre moschettieri, che quella gli piaceva ancora di più a Gino, che i moschettieri in realtà erano quattro, ma Dumas il titolo del romanzo lo aveva lasciato con il tre, perché era più bello, e questa cosa qui a Gino lo mandava in estasi. Oppure, che ne so, Alì Babà e i trentanove ladroni, che dovevano essere quaranta, i ladroni, ma nella versione di Gino, uno si perdeva subito nel deserto e non se ne sapeva più niente, poveretto. Cose così.
Mi stava simpatico, a me, Gino, che c'è stato un periodo che la gente dicevan che ero matto anch'io.
Borbottava, lì sulla panchina.
Diceva che se fosse stato possibile, nella vita, di saltare gli anni pari, sarebbe stato disposto a sacrificare anche tutti i giorni dispari che quelli si portavan dietro.
E lo vedevi che diceva sul serio, lo vedevi da come ti guardava negli occhi, con quei suoi occhi uno aperto e uno chiuso per non far casini con le focali.
A Gino gli era morta la Mara il 18 agosto del '70. La Mara era la moglie, di Gino. A Gino gli era nata la Lisa il 13 maggio del '53, e se l'era portata via la bronchite meno di un anno dopo, il 24 aprile del '54. La Lisa era la figlia, di Gino e della Mara. Il 12 giugno del '76 gli avevan graffiato la Seicento, a Gino. La Seicento era la macchina, di Gino. Il 28 febbraio dell'80 gli operai del comune eran venuti a sostituire la panchina, in piazza: avevan portato via quella vecchia in ferro battuto che era lì da chissà quando che Gino nemmeno se lo ricordava da quanto tempo era lì quella panchina e ce ne avevano messa una di plastica verde che più brutta non si può. Il 6 ottobre dell'84 si era svegliato tutto sudato, Gino.
Gino era del '22, come mio nonno, che avevan fatto le elementari insieme, lui e mio nonno. Poi basta. Nel senso che poi tutti e due avevano smesso di andare a scuola, che c'era da lavorare prima e da fare la guerra poi.
Io ascoltavo zitto, e poi gli dicevo, un po' preoccupato, mentre sulla piazza era pian piano sceso il buio e mi veniva da stringermi nelle spalle perché mi prendeva freddo, lì su quella panchina verde di plastica brutta, ma così brutta che non vi dico:
Rispondeva lui con sulle labbra quel mezzo sorriso che non prometteva niente di buono. Appunto.
Gino se ne è andato il 31 dicembre del 1999. Si è allontanato dalla piazza approfittando delle grida e dei rumori che sempre e chissà perché la gente mette su in attesa dell'anno nuovo (che a volte la gente, lei sì che sembre matta sul serio) e da quel giorno nessuno l'ha più visto, né nei giorni pari né in quelli dispari.
L'altra sera, seduto da solo sulla panchina, ascoltavo lo scroscio della fontana accanto e il tamburellare delle mie dita sulla plastica ormai di un verdaccio slavato, e pensavo che chissà dov'è ora Gino. E che un po' alla fine l'ho capito, perché è sparito proprio quel giorno lì.
È che il 2000, a lui, gli deve essere sembrato un anno troppo pari. Ma così pari che non ce l'ha fatta.