In differita

In differita

Marta e il suo rapporto con il tempo. Amore e odio, ma sempre massimo rispetto per un concetto di ritardo a suo modo salvifico. Perché l'attesa, in fin dei conti, è tutto quello che ci resta.

11 Aprile 2007

Marta è sempre in ritardo. Non è una questione di appuntamenti, o di impegni presi, di maleducazione o di testa tra le nuvole: Marta è sempre in ritardo su quello che le succede intorno, nel senso che la sua vita, ogni santa volta, arriva un attimo prima di lei.

E men che meno è un problema di puntualità, piuttosto di metabolismo direi: Marta sembra fatichi a reagire agli impulsi, come un sistema al cloroformio, perennemente perso in una latenza che ha dell'incredibile.

Gli occhi e il trucco

Così a prima vista diresti che Marta son gli occhi, che la fregano. Diresti che la soluzione va cercata in quei due occhioni blu che evidentemente sono ipersensibili ai cambiamenti di forma, luce e colore che li circondano.

Perché in effetti il punto potrebbe stare nel fatto che Marta si fa rapire dal mondo che le passa accanto: rimane a bocca aperta di fronte alle cose che si affannano in giro e ha un talento del tutto naturale (a modo suo splendido) di trovare un qualcosa di affascinante anche nelle più piccole idiozie quotidiane.

Messa così, non sembrerebbe grave: un po' folkloristica forse, ma più o meno sostenibile, come situazione. Il lato complicato del tutto è che, a vederla dall'esterno, Marta, sembra scema. Almeno finché non hai capito dove sta il trucco. Scema sembra, giuro: fa le cose nel momento sbagliato, parla e non si capisce di cosa stia parlando, le dici qualcosa e non ti risponde. Ma c'è il trucco, si diceva.

Come spesso succede nella vita, il trucco sta nell'operare un'opportuna traslazione temporale: nell'associare le azioni di Marta non a quello che è appena successo, ma a qualcosa che si è verificato uno, cinque, dieci minuti, oppure un'ora, un giorno, una settimana fa.

Tipo mia nonna, no? Che da piccolo, ogni volta che mi preparava l'uovo alla coque, invece di memorizzare l'ora e toglierlo dopo un minuto, memorizzava l'ora, metteva l'orologio indietro di un minuto e toglieva l'uovo quando adesso era l'ora di prima.

Sembra difficile, in questi termini, ma Marta son degli anni che va avanti così, e a starle intorno ti abitui presto, e allora tutto ti sembra meno frenetico, più calmo, più normale.

Al telefono, ai semafori

Marta per esempio non c'è verso, di parlarci al telefono: quello squilla, lei smette di fare ciò che sta facendo e, ferma immobile, sorride e lo ascolta. Poi si alza, all'improvviso come scossa da qualcosa che uno la osserva e si chiede chissà che cosa, e corre verso la cornetta, rigorosa e precisa in quella puntualità tutta sua di alzarla nell'esatto istante in cui dall'altro capo del filo il qualcuno in questione si è appunto appena rotto i coglioni di stare ad ascoltare un elettrodomestico che suona a vuoto, e ha riattaccato. Allora si volta, Marta, ti guarda con quegli occhioni blu come a dire: «Toh, che coincidenza, succede sempre così.»

  • Chissà chi era!

Marta ai semafori passa col rosso, che ancora non so come ha fatto a non ammazzarsi. Che non è una bella esperienza farsi dare un passaggio quando guida Marta: vedi il semaforo che ti sfreccia sulla testa, senti il concerto dei clacson con gli assoli di frenate e allora ti volti di scatto e le chiedi:

  • Ma che cazzo fai?

E lei ti risponde, con quegli occhioni blu che sembra ti stiano dicendo la cosa più naturale di questa Terra:

  • Prima era verde.

Già, prima era verde, come negarlo. Prima era verde, che ti sembra quasi stupida la domanda che ti è appena uscita dalle labbra.

Alla stazione

Ma io mi ricordo soprattutto quella volta alla stazione: s'era io e Marta, sul binario giusto, uno fermo accanto all'altra. Almeno finché lei non ha cominciato a correre: con quei passi incerti, forse a causa dei tacchi alti, o forse era solo stanchezza. Correva sul bordo del binario, quasi fosse un'equilibrista sul filo del rasoio, ma un'equilibrista strana, di quelle che di equilibrio ne hanno ben poco: sembrava continuamente che stesse per cadere. Un'equilibrista così strana che a tratti veniva quasi voglia di spingerla giù, con forza, e farla finita con quella corsa sbandata, che non portava da nessuna parte (o di spararle magari, sparatele, qualcuno le spari) se non alla fine della stazione.

Eppure lei non cadeva, continuava a correre in quel suo modo goffo, con i due tacchi uno sempre in ritardo sull'altro, continuava, anche se nel frattempo le si era slacciato il foulard. Che Marta si veste così, un po' come mia nonna da giovane, con i tacchi, i foulard a fiori anni '50, le gonne appena sotto il ginocchio: magari fra qualche anno, anche lei scoprirà i jeans, le scarpe da ginnastica, o le mini. Tutto a suo tempo, come sempre.

Continuava insomma, anche se all'improvviso le si era parato davanti il capostazione con la paletta, il fischietto e un paio di occhi sgranati che non si eran mai visti.

Ora, dice Polly (lei che di binari se ne intende), che nelle stazioni a correre sono i treni oppure i viaggiatori che stanno per perdere i treni che corrono. E le cose stanno esattamente così: ci si può giurare, se lo dice Polly. Solo che quel giorno, quel giorno di me e Marta, quel giorno su quel binario non c'era nessun treno. Era partito da almeno un quarto d'ora, il treno. E Marta non aveva battuto ciglio: se l'era lasciato sfilare accanto come nulla fosse. Esattamente nel modo in cui, come nulla fosse, poco dopo era scattata via a rincorrere su due binari vuoti un qualcosa che era ormai già due stazioni avanti: quel qualcosa su cui era salito Giulio, uno dei tanti che il trucco non l'avevan capito.

Uno stratagemma geniale

Io c'ho pensato spesso, e sono arrivato alla conclusione che quello di Marta è uno stratagemma geniale, formalizzato nel modo più semplice che si potesse pensare: l'attesa.

Marta non è in ritardo: Marta aspetta. Aspetta che ogni cosa che le succede, ogni stimolo che riceve, ogni variazione delle condizioni al contorno sedimentino per il tempo necessario: quello che basta per godersele a fondo, per lasciarsi conquistare o almeno per non farsi ferire.

Lo dicon tutti che le cose, nei ricordi sembran sempre più belle, più semplici, più fragili a volte, ma a loro modo più dolci. Ecco. Marta aspetta che ogni suo presente diventi ricordo. Ha la pazienza che ci vuole e non si fa fuorviare o impressionare da quello che succede nel frattempo. Marta ha trovato il modo di viverli i ricordi. E c'è solo da essere invidiosi per questo.

Il problema

Il problema, al solito, sta nel buffer (cfr. «Il buffer è una cosa che la riempi finché c'è posto, poi trabocca e cominci a perder robe per strada», citazione esatta da Pisciare fuor dal vaso, pubblicazione clandestina del misterioso dottor Ginori, carbonaro di inizio Ottocento). che io non lo so quanto è grande, il buffer di Marta. Quanta parte di mondo si perde con questo meccanismo che si è inventata nella sua testa. Non lo so, se il gioco vale la candela, insomma.

So soltanto che ieri mi ha detto che sì, che si è innamorata un'infinità di volte, in ventisette anni: se lo ricorda benissimo.

Solo che di ognuno, ogni volta, me ne rendevo conto quando ormai ero innamorata del successivo.

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