Una sinusoide alternata di stati d'animo alternati a incastro. Un pericolosissimo loop che rischia di fare male alla salute. Emozionarsi a catena alla lunga stanca.
6 Febbraio 2007
Un paio di giorni fa ero lì, seduto al tavolo con la penna in mano che scrivevo a Polly uno di quei bigliettini, di quelli col sorriso sopra. Che Polly poi quando torna, a lei le piace di trovarli sul tavolo, quei bigliettini che chissà chi glieli ha scritti.
Ci son felicità assurde e intense che si scoprono per caso. È come essere al circo: che uno gli scappa da ridere e non sa mica perché.
Questa cosa qua, c'avevo scritto su. Ed ero lì che me la rileggevo a voce alta e pensavo che alla fine, mi sembravan parole belle, quasi commoventi, a volersi sbilanciare. Che lette così nel nulla senza un contesto e tutte le cose di me e Polly intorno, potevan pure sembrare ridicole quelle parole lì, ma invece a capirne il significato quello vero eran commoventi, altrochè. E allora non me ne son nemmeno reso conto che già c'avevo i lacrimoni agli occhi per le mie stesse parole che avevo scritto.
Poi però mi son sentito un po' stupido a commuovermi per le mie stesse parole, e allora mi è venuto da sorridere della mia stessa commozione: ma una risata di quelle improvvise, sguaiata e sarcastica, che mi ha deformato il viso lasciandolo tutto contorto in quella che, caro utente fisionomista, sembrava niente altro che una smorfia di dolore.
E va confessato: era dolore vero quello che mi ero ritrovato a provare ridendo per la commozione scaturita da due o tre parole che avevo detto io.
Il che è assurdo, se uno ci pensa: e potrebbe così sembrare molto più naturale quello che mi è venuto spontaneo subito dopo, ovvero che la sola idea che avessi potuto provare tanto dolore per la mia stessa commozione, che per di più era a sua volta nata da roba che avevo scritto io con le mani, mi ha fatto sorridere. Un sorriso divertito e un po' malizioso, quello di me stesso che prova dolore per via delle risate che mi ero fatto alla faccia della mia propria commozione.
Ecco. Ora io mi rendo conto — e me ne rendevo conto anche in quel momento — che questa storia rischiava di diventare come quella del cane che si morde la coda, quella che cantava quel tizio buffo con una cesta di capelli così. Quella alla fiera dell'est per due soldi un topolino mio padre comprò. Quella che poi viene il gatto che si mangia il topolino che alla fiera dell'est suo padre comprò. Quella che subito dietro di corsa spunta il cane che morsica il gatto che aveva mangiato il topo, sì, proprio quel topo che il papà del tizio basso e con quei capelli assurdi aveva comprato. Alla fiera dell'est, dove non c'è il mare, l'aveva comprato, il topolino. Quella canzone lì, che insomma, così via.
Io me ne rendevo conto, che le mie sensazioni rischiavano l'impasse. Ma che ci posso fare se a quel punto poi mi venne in mente che quella canzone lì della fiera dell'est me la cantava sempre mia nonna mentre mi preparava la merenda e che è un sacco di tempo che non me la canta più mia nonna, quella canzone da due soldi (mio padre comprò): un po' perché a casa non ci sono mai, un po' perché ho perduto quella sana abitudine di fare merenda. Un po' perché non ci manca tanto che c'ho trent'anni.
Insomma che ci posso fare se tutta questa faccenda di mia nonna e della fiera dell'est mi ha fatto venire una grande amarezza condita con una punta di disagio: la ben nota amarezza mista a disagio dovuta all'ironia scaturita dal gran dolore che uno sente dopo che gli è venuto da ridere per colpa di quella cosa che si è commosso per una stupida frase scritta di suo pugno.
Poteva sembrare finita: il fatto è che "di suo pugno", mi era sembrata, così anche solo a pensarla, una locuzione talmente arcaica a fuori luogo che mi era venuto da dirmi: caro me, quando fai così sembri Niccolò Foscolo detto Ugo.
E così il pensiero di me con le basette improponibili e i capelli scarmigliati, tutto chino al lume di candela a soffrire per Jacopo Ortis e tutte le sue pene e le sue epistole, mi ha portato, com'era prevedibile, a sbellicarmi dalle risate. Che proprio ero piegato in due come di sicuro capita a tutti quando si vedono paragonati a Niccolò Foscolo detto Ugo, a causa dell'amarezza un po' mischiata con quel che basta di disagio venuti fuori dal pensiero di un loro parente alla fiera dell'est, come nella canzone, quella che ti spunta in testa quando ti accorgi di essere entrato in loop perché è già l'ennesima volta che ti viene da prenderti in giro per via del fatto che ti sei scoperto a provare un dolore assurdo per il troppo sarcasmo che c'hai messo quando sei scoppiato a ridere per quella commozione inspiegabile che ti era salita dentro a leggere una frase, frase che, guarda il caso, avevi scritto tu stesso, caro utente generico preso qui semplicemente ad esempio.
A quel punto, quel giorno un paio di giorni fa che mi ero messo a scrivere il biglietto per Polly. A quel punto, travolto da tutta questa attività emotiva, mi era presa una stanchezza, ma una di quelle stanchezze che ho fatto appena in tempo a dirmi ma che cazzo c'hai da ridere mentre passavo davanti allo specchio.
Un sonno di quelli che mi sono addormentato come un sasso che mi sono svegliato solo ora.