Controtempo

Controtempo

Come passare il tempo nelle stazione dove il tempo passa in un modo tutto suo. E un modo drastico di fermarlo, il tempo. Una roba da non fare a casa. E nemmeno altrove, fidatevi.

16 Giugno 2008

Guardar gli orologi in stazione, è tempo perso. Guardar gli orologi. Nelle stazioni. Dice Polly. Che gli orologi, dentro le stazioni non ci si capisce più niente gli orologi dentro le stazioni. diventan scemi, gli orologi, dentro le stazioni. Che segnan tutti un'ora diversa e nessuno quella giusta.

Fumini, macchinista in cassintegrazione e sindacalista della FILT a tempo perso, ti assicurava che era un trucco delle Ferrovie dello Stato: un trucco geniale, diceva Fumini, che se ti lamentavi dei ritardi, loro potevan sempre appellarsi a un fortunato calcolo probabilistico secondo cui nella stazione c'era almeno un orologio in base al quale il treno in questione era arrivato in orario.

Che poi è normale, dice Polly. Nelle stazioni è tutto un gran casino di numeri di annunci di tabelloni di speranze di coincidenze di ansie e complicanze temporali che è normale che le lancette, cercar di venire incontro alle esigenze di tutti, poi diventan matte, e decidon di far di testa loro. Matte, diventano. O forse solo si stancano. Non fa differenza, dice Polly.

Ieri sera

Come ieri sera.

Ieri sera l'orologio sul binario segnava le nove e un quarto. Erano le otto e un quarto. Quello fuori dalla stazione, quello gigante a campeggiare sulla facciata di architettura dichiaratamente neofascista, le undici e cinquantacinque.

  • Quando c'era Lui i treni arrivavano in orario.

Sentenziava sempre Pinozzi, tenente dell'Arma dai tempi dell'omicidio Pecorelli, sorseggiando l'Amaro del Carabiniere al bancone del bar — della stazione, s'intende.

  • Sì, infatti: quelli diretti ai campi di concentramento arrivavano anche in anticipo.

Gli urlava dal tavolo accanto, tirandogli dietro il mazzo di carte, Giosuè Bagnoli, ex partigiano di stanza all'Abetaia, detto "Vladivostok" perché ogni sera alle sette annunciava immancabilmente «Domani parto», e poi invece l'indomani lo trovavi — al bar della stazione, s'intende — ancora a bestemmiare l'asso di picche che non ne voleva sapere di finirgli tra le mani.

  • Lui chi?

Chiedeva inascoltato Cesare, detto "Capirò", soprannome beneaugurante quanto vano, lui che in sessant'anni di vita eran sessant'anni che non capiva un cazzo — condizione, la sua, esser sinceri, anche invidiabile, sotto certi punti di vista.

Seduti

Siam entrati, io e Polly, dentro la stazione dico. Siam entrati e ci siam seduti sulla linea gialla. La linea gialla quella "vietato calpestare la linea gialla". Quella che io allora avevo la coscienza a posto, che noi ci siam seduti sopra: l'abbiam mica calpestata.

O forse la filastrocca degli altoparlanti diceva "vietato oltrepassare la linea gialla"? Non mi ricordo. Polly, lei sì, sicuro che lei si ricordava, ma non gliel'ho chiesto, che mi vergogno, io, non ricordarmi certe cose fondamentali. Comunque noi in ogni caso, anche fosse, ci siam seduti sopra, l'abbiam mica oltrepassata.

Ci siam seduti insomma. Poi dopo qualche minuto che lei, Polly dico, non diceva una parola io allora ho chiesto:

  • Cosa stiamo aspettando?

L'ho chiesto così, per rompere il ghiaccio, come un calcio di rigore servito su un piatto d'argento, che mi aspettavo che Polly mi rispondeva subito a tono:

  • Che sia troppo tardi, madame.

E invece.

Il tempo che passa

Polly ha continuato a guardarsi le stringhe delle scarpe, poi piano piano ha detto:

  • Niente.

Che «non so te», ha aggiunto, ma lei non stava aspettando niente, che non è mica detto che in una stazione si debba per forza aspettare qualcuno o rincorrere con gli occhi qualcosa che non si è fatto in tempo ad aspettare, ha spiegato.

  • Io sto guardando il tempo che passa.

Ha detto Polly. Che non c'è posto migliore di una stazione per guardare il tempo che passa. «Non so te», ha detto.

Io. Io guardavo Polly che guardava il tempo che passava. Io mi pareva già una cosa abbastanza complicata di per sé, guardar Polly che guardava il tempo, che non ero in grado di farne altre conteporaneamente.

Tirava un po' di vento, quando, ogni tanto, qualcuno, insieme al tempo, ci passava accanto correndo.

  • Correre è il modo più stupido per cercare di recuperare il tempo perso.

Sorrideva Polly scuotendo la testa. Lei dice che sarebbe più semplice fermarsi e cercare di recuperare un po' di fiato invece, che col fiato almeno ci respiri, o ci appanni i vetri per farci i disegni sopra con le dita, che è una cosa che bisognerebbe impararla, far i disegni con le dita sui vetri come fa Polly. Col tempo invece, ci fai solo dei gran casini.

Quel giorno

Dice Polly che conosceva uno che era convinto di poter comandare il tempo facendo ritardare i treni. E allora era andato a vivere in una capanna vicino alla ferrovia e tutte le sante mattine che Cristo metteva in terra lui si alzava presto e cospargeva i binari con quello che gli capitava sottomano. Qualunque cosa potesse rappresentare un ostacolo per la corsa dei vagoni andava bene: rametti, sassi, falsi cartelli di lavori in corso. Una volta ci mise pure una buccia di banana (cfr. il detto dei nostri vecchi «scivolare su una buccia di banana»). Un'altra volta un bicchiere pieno d'acqua fino all'orlo (cfr. il detto dei nostri vecchi «affogare in un bicchier d'acqua»). Un'altra volta ancora un cuscino morbidissimo (cfr. il detto dei nostri vecchi «chi dorme non piglia pesci»). Ma niente da fare. Si vede son detti che valgon per i nostri vecchi, ma non per i treni, dice Polly.

Poi allora un giorno, mi spiegava Polly, seduti sulla linea gialla a guardarsi le stringhe delle scarpe, lei, a guardar lei io, con tutto quel tempo che ci passava intorno. Poi un giorno allora il tipo, quello che comandava il tempo con i treni ma non ci riusciva mica tanto bene a quanto pare dico, un giorno ha deciso di sdraiarsi lui, sui binari. Dice Polly che avrà pensato: vedrai ora che se non mi riesce di comandarlo il tempo, vedrai così lo fermo, il tempo, deve aver pensato il signore quello della capanna di cui sopra, dice Polly.

  • C'aveva mica tutti i torti...

Ha sussurrato giusto in tempo per lasciar che la sua voce venisse coperta dall'annuncio che il treno da un posto a un altro invece che arrivare al binario previsto sarebbe arrivato, forse, dieci binari più in là.

Mi raccontava Polly, lì seduti in equilibrio sulla linea gialla, che lei se lo ricorda benissimo quel giorno lì, quello che l'amico suo fermò il tempo. E la folla la gente la polizia le ambulanze le sirene e tutto il resto.

Io, mentre Polly parlava con gli occhi bassi, io me la immaginavo la scena. Di un qualcuno sdraiato sui binari, con la testa appoggiata su un cuscino, accanto a una banana appassita e a un bicchiere pieno fino all'orlo.

È solo un po' di me che se ne va

Chissà se tremava, pensavo. Il bicchiere dico, mica lui: lui chiaro che non tremava. Uno che un giorno decide, così, di fermare il tempo, anche solo per qualche secondo, figurarsi se trema di fronte a un treno in arrivo. Ma il bicchiere chissà, il bicchiere magari sì. Che i binari, quando arriva un treno — questo lo sanno anche i ragazzini — iniziano a vibrare, e allora un bicchiere colmo fino all'orlo magari può darsi anche che non ce la faccia, che tenersi tutto dentro, nella vita, è una cosa complicatissima: può darsi che qualche goccia alla fine scivoli giù.

Chissà, magari anche sì pensavo, io che mi perdo nei particolari anche nel bel mezzo di una tragedia.

  • Non lo so, ma sicuramente sarebbe stato il giorno giusto per piangere, anche per un bicchiere.

Ha commentato Polly, che io non lo so quella benedetta figliola come fa a saper sempre ciò che mi passa per la testa.

Io ho saputo solo guardare.

«Io ho saputo solo guardare». Messe così, sulla bocca di Polly (Polly c'ha una bocca rosa, di un rosa strano e acceso, non rossa — su, siamo seri e non prendiamoci in giro: non esiston le bocche rosse) quelle parole sembravan quasi un difetto, una colpa quasi, sembravano, quelle parole lì, sulle labbra di Polly sulla linea gialla.

E pensare, me che mi sembrava così difficile anche solo star lì a guardare lei. Pensare: mica semplice, ci vuol talento anche a guardare, ci vuole.

La cosa più stupida

E poi ritrovarsi a dire la cosa più stupida. Che spesso, dire la cosa più stupida è una forma di difesa, una forma di difesa che funziona pure, a volte, che ti senti quasi sollevato, come svuotato all'improvviso da tutta quell'ansia di ritardo che c'era prima, dentro, dire la cosa più stupida. Dire:

  • Ma alla fine, era morto?

Polly allora ha smesso di guardarsi le stringhe delle scarpe e ha guardato me negli occhi. Sembrava così semplice invece ora, guardare, a guadar lei che guardava me, sembrava la cosa più semplice del mondo, guardare.

  • Ma che importa? Cosa conta? È come un binario.

Ha detto Polly, quasi incuriosita dalla mia domanda.

  • In che senso?

Ho chiesto io, che dire le cose stupide, poi una tira l'altra.

  • Nel senso che nessuno ci dà il diritto di definirlo morto solo perché non porta più da nessuna parte.

Allontanarsi

Io allora poi son stato zitto, che dire le cose stupide, poi a un certo punto anche basta.

Ascoltavo un treno che stava arrivando, con il rumore dei freni ad annunciarlo con il poco anticipo che non sempre basta e la solita voce gracchiante a dire «allontanarsi dalla linea gialla».

Allontanarsi, pensavo. Ecco, era "allontanarsi" la parola giusta. Che idioti, pensavo, dire "allontanarsi" e non specificare in quale direzione. Che se uno si allontana dalla parte sbagliata, vedi poi cosa succede, dar le robe per scontate, pensavo.

Il Cappellaio Matto

Poi ci siamo alzati sul serio, a un certo punto. L'orologio sul binario segnava le due e venti. Ci siamo alzati e siam tornati sui nostri passi, che ormai eran diventati i passi di chissà quante altre persone, che quasi non li sapevam più distinguere, i nostri passi. Quello fuori dalla stazione, di orologi dico, le undici e cinque. Era quasi mezzanotte, più o meno. Si camminava vicini con le mani in tasca, io e Polly, e intorno un po' tutto sapeva di un'estate indecisa. Poi:

  • Assomigliava al Cappellaio Matto.

Ha fatto Polly all'improvviso, poi.

Svogliata. Un'estate svogliata, voler esser precisi, pensavo.

  • Il Cappellaio Matto quello di Alice, te lo ricordi?
  • Sì.

Sì, ho detto, che me lo ricordavo il Cappellaio Matto di Alice ho detto. Però pensavo ad altro.

Pensavo che è tutto così faticoso, questo andare e ritornare, che nella vita ci si perde, nonostante i binari, per il semplice fatto che il tempo ti succede addosso sempre quando ormai è già passato. Pensavo a quanto è buffo e triste, tutto il suo andirivieni, del tempo dico, che lascia nomi facce voci e sorrisi bene impressi. E poi scompare. Lasciando la vita nel mezzo, tra il tempo in cui puoi fare ogni cosa e quello in cui c'è una sola cosa da fare.

Quello in cui c'era, una sola cosa da fare, pensavo.

Alice, pensavo. Pensavo che dopo Polly ci mancava solo Alice. Che io troppe donne tutte assieme, non le so mica gestire, pensavo.

Mi manca il tempo.

La cosa più importante che ho imparato su Tralfamodore è che quando una persona muore, muore solo in apparenza. Nel passato è ancora viva, per cui è veramente sciocco che la gente pianga al suo funerale. Passato, presente e futuro sono sempre esistiti e sempre esisteranno. I tralfamadoriani possono guardare i diversi momenti e vedere come tutti gli istanti siano permanenti: è solo una nostra illusione di terrestri credere che a un momento ne segua un altro, come nodi su una corda, e che quando un istante è passato, sia passato per sempre. Quando un tralfamadoriano vede un cadavere, l'unica cosa che pensa è che il morto, in quel momento, è in cattive condizioni, ma che la stessa persona sta benissimo in un gran numero di altri momenti. Oggi anch'io, quando sento dire che è morto qualcuno, alzo le spalle e dico ciò che i tralfamadoriani dicono dei morti, e cioè: così va la vita.

Mattatoio n°5

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